Stranamente Familiare

Eccomi, l'ultimo libro di Jonathan Safran Foer edito da guanda

“Eccomi”, di Jonathan Safran Foer: la risposta tardiva a una domanda urgente.

In questi giorni ho ripreso a leggere Eccomi, l’ultimo libro di Jonathan Safran Foer.

Lo leggo lentamente, o troppo velocemente. Cerco di resistere alla tentazione di saltare dei passaggi. Sono tentata ogni tanto di lasciar perdere del tutto. Per la sua mole, non riesco facilmente a portarmelo in giro, lo leggo di solito a casa, la sera.

Qualche giorno fa, mentre leggevo, mia madre mi chiama al telefono raccontandomi per filo e per segno come l’operaio abbia stuccato, dipinto e fatto la seconda passata di pittura al soffitto della cucina, dove c’era una macchia d’umidità. Non si è soffermata nemmeno tanto a descrivere quanto era grande, e di che colore fosse, la macchia d’umidità. Eppure, dopo circa dieci secondi che me lo raccontava, ero già da un’altra parte. Ho guardato il libro che tenevo in mano e ho pensato ai romanzi dell’ottocento e a Tolstoj, a come mi succedeva anche con lui questa cosa, quando descrive le sue immense piantagioni e la sua tundra: dopo qualche riga di descrizione, mi assento.

Siate specifici! Ma con parsimonia.

La descrizione minuziosa non è mai stata la parte del romanzo che mi piace di più.

Per un fatto di economia narrativa, forse, perché voglio arrivare subito al dunque, o perché mi piace immaginarmi le cose come voglio io, oppure perché più dettagli qualcuno mi dice, meno riesco a farmi un disegno d’insieme.

Anche in Eccomi mi sta succedendo la stessa cosa. Ogni tanto, durante le sue minuziose descrizioni, mi perdo il disegno d’insieme.

Nel mio piccolo, nelle mie scritture, all’imperativo ‘siate specifici’ non ho mai potuto rispondere con ardore. Posso essere specifica nelle cose che conosco, ma non mi immagino di andare a disintegrare le cose che non conosco per poterne descrivere gli atomi nei minimi dettagli.

Ma io non sono Jonathan Safran Foer, mi pare evidente.

Non esserci.

Eppure mi fa sorridere pensare che il nostro giovane scrittore si sia alzato dalla scrivania, un bel giorno, e sia andato in bagno e abbia preso in mano i flaconi di crema che l’ex moglie aveva lasciato in un cassetto in fondo al mobile del lavandino e abbia copiato per intero sia il nome che la composizione chimica dei prodotti, per poter scrivere il capitolo sul non esserci. Mi fa sorridere pensarlo a descrivere per filo e per segno, in uno scrupoloso elenco, quello che piace a Julia, quello che piace a Jacob, come alle medie, quando eri interrogato in geografia, si dovevano elencare i prodotti locali di una determinata regione.

Non esserci, ci deve aver pensato molto su questo tema negli ultimi anni. Tutti noi dovremmo rifletterci, prima o poi, in modo completo e approfondito: per chi ci siamo, per chi non ci siamo.

È un’ossessione, se ci pensi una volta poi cominci a pensarci tutti i giorni, cominci a farci caso sempre, cominci a correggere il tiro con le persone, se vuoi esserci, tirarti indietro definitivamente e scrupolosamente, se vuoi non esserci. Un lavoraccio. Ci vuole tempo, fiducia e un gran senso di responsabilità.

Eccomi sembra la risposta alla compagna suscettibile che chiede all’uomo assente: mi stai ascoltando? Senza sapere che è la domanda sbagliata. E lui risponde: sì, ti stavo ascoltando, guarda, ti ripeto parola per parola tutto quello che hai detto. E in effetti il cervello ha registrato tutte quelle cose. Lui le elenca minuziosamente, sì, la stava ascoltando.

Domande vere.

Ma la vera domanda sarebbe diversa. La vera domanda sarebbe: ci sei?

Eccomi mi sembra la risposta a questa domanda. Guarda, anche se ci siamo lasciati, io c’ero. Forse non abbastanza, è vero, ma c’ero. Mi ricordo della tua crema, conosco tutte le cose che ti piacevano e che non ti piacevano. C’ero quando mi descrivevi atomo per atomo la tua giornata. C’ero quando eri infastidita da me e quando mi infastidivano alcune piccole cose di te. Ero lì.

E sarebbe anche la risposta per mia madre.

 (18/03/2017)