Vivere e insegnare la scrittura: un’intervista a Raul Montanari
Raul Montanari ha pubblicato sedici romanzi. Più di cento suoi racconti sono usciti in antologie e sui maggiori quotidiani e periodici italiani, insieme ad altre centinaia di articoli su argomenti letterari e di costume. Ha tradotto, fra gli altri, Philip Roth e Cormac McCarthy. Vive a Milano, dove dal 1999 tiene corsi di scrittura creativa.
È tornata in auge l’annosa diatriba “scuole di scrittura sì, scuole di scrittura no“. Cosa risponderesti a qualcuno che dice che la scrittura creativa non può essere insegnata e che anzi chi si propone di farlo è un ‘venditore di fumo’?
Vedi, queste obiezioni sono così stupide che è perfino difficile rispondere, nel senso che non sai nemmeno da che parte cominciare. È come se uno ti chiedesse: “Perché dici che due più due fa quattro? Io penso che faccia cinque. Dimostrami che due più due fa quattro”. Sai che non sarebbe facile dimostrarlo?
Proviamo con due risposte semplici, legate l’una all’altra.
Anzitutto non si capisce perché uno trovi naturale che ci si iscriva a un corso di fotografia, di cinema, di recitazione, di pittura, di uncinetto, di cucina, di arti marziali, mentre i corsi di scrittura suscitano scandalo e l’immediato sospetto che chi li tiene sia un cialtrone se non un truffatore. La scrittura narrativa è una tecnica e come tale è insegnabile, più o meno bene a seconda del talento del docente. È vero che si può scrivere un romanzo anche da autodidatti: io stesso non ho mai seguito nessun corso di scrittura, ai tempi del mio esordio. Ma al lettore non interessa se tu hai scritto quel libro imparando da solo a farlo o pagando un buon maestro, come non gli interessa se ci hai impiegato dieci anni o un mese, o se la storia che racconti ti è successa davvero o l’hai inventata. Gli interessa che sia bello.
La seconda risposta, come anticipavo, è legata alla prima: perché qualcuno trova strano che si tengano corsi di scrittura? Per un equivoco. Nella narrativa si inventano delle storie e usano le parole per raccontarle, e così una persona molto ingenua pensa: “Io le parole le uso tutti i giorni per comunicare, le storie mi vengono in mente. Mi metto lì e scrivo. Che bisogno c’è di fare un corso?” Detto in un altro modo: una persona che, per esempio, voglia diventare musicista trova un’asticella molto alta fin da subito, perché dovrà studiare solfeggio, armonia, cose che non sono nella vita di tutti i giorni. Ma anche nella narrativa (e nella poesia) l’asticella c’è; solo che a prima vista sembra che la si possa scavalcare tranquillamente. In realtà più ci si addentra in un progetto narrativo più l’asticella si alza, al punto che può diventare insormontabile.
Sono 20 anni che insegni, raccontaci qual è il tuo approccio all’insegnamento e come è cambiato nel tempo.
In effetti gli anni sono almeno 25 perché sono 22 di scuola, ma già prima avevo fatto diverse lezioni come ospite in varie istituzioni.
Il mio approccio è decisamente normativo. Io insegno regole, do anzi una grande quantità di regole molto strutturate. Perché c’è un modo giusto e molti modi sbagliati per fare tutto, quando si scrive, e bisogna analizzarli con attenzione; capita anche che i modi giusti siano più di uno, e in quel caso le regole sono ancora di più.
Dopodiché, inutile dirlo ma diciamolo, è chiaro che l’allievo prenderà solo le regole che è in grado di applicare, o per (in)capacità personale o perché invece ha già un’idea forte di stile, di scrittura, per cui alcune di queste regole può sostituirle con altre che si detta da sé. In ogni caso è stato fondamentale, per lui, venire in contatto con le regole che gli ho dato io. Detto con una metafora semplice: il maestro costruisce gabbie perché gli allievi ne possano evadere. Ma se non c’è la gabbia non evadi da nulla, non hai il punto di riferimento costituito dalle sbarre della gabbia; vaghi a caso e basta. Questo approccio non è mai cambiato nel tempo. Sessanta autori pubblicati con i maggiori editori italiani mi confortano sulla sua bontà, dato che fanno della mia scuola la più produttiva in Italia, attualmente. Senza parlare del fatto che moltissime persone hanno continuato a seguire anche dopo aver scoperto di avere poco talento, perché gli piaceva comunque stare ad ascoltarmi.
Qual è la difficoltà maggiore nell’insegnare scrittura creativa?
Ce ne sono diverse.
Anzitutto devi avere molte cose da dire su ognuna delle sfaccettature della scrittura narrativa, e sono in pochissimi ad avere questa ampiezza di conoscenza che può portarti al di là di quei soliti quattro concetti rimasticati. Poi devi essere capace di dirle, queste cose, in modo coinvolgente. In terzo luogo devi saperti adattare a ogni singolo allievo e alle sue esigenze, a quello che è portato a scrivere e a come è portato a scriverlo.
Questo terzo punto è molto delicato, perché – come puoi immaginare – esiste una linea di confine fra le libertà creative che l’allievo può prendersi e i veri e propri errori che invece gli devi correggere, insistendo perché non li ripeta. A volte capita che la mia prima reazione davanti a una frase, a un dialogo, a una trama, sia di pensare: “Non va bene.” Poi mi correggo: “Io non lo farei così, ma forse invece va bene”. Ci vuole molta sicurezza e sensibilità di giudizio e direi che arrivare ad averli è un cammino di apprendimento interminabile per chi insegna. Insegnare è sempre imparare, questo l’abbiamo capito da svariati millenni.
Immagino che la scuola influenzi le cose che scrivi, è vero? Come scriveresti se la scuola non ci fosse?
Bella, questa domanda. In realtà è quasi il contrario: credo di essere diventato un bravo maestro di scrittura proprio per certe caratteristiche mie come autore, che c’erano fin da quando ero ragazzo. In un certo senso io sono diventato un potenziale narratore, e poi un narratore pubblicato, riflettendo costantemente sulla tecnica della scrittura. Sono come un regista che fin da ragazzino, quando andava al cinema e gli altri si commuovevano, ridevano o si spaventavano davanti alle immagini sullo schermo, stava in poltrona a rimuginare e domandarsi: “Come ha fatto? Dove ha messo la macchina da presa? Perché lo sfondo è sfuocato? Questa scena è girata davvero in un deserto o è tutto ricostruito in studio, tutto finto? Non sarebbe più efficace se il protagonista avesse un fisico diverso?”.
A proposito di questo: so, perché lo hai raccontato a lezione, che hai avuto alcuni “confronti” con dei tuoi ex allievi perché si sono rivisti in un personaggio di un tuo romanzo e non ne erano contenti; come ti comporti con questo rapporto tra ‘realtà’ e ‘finzione’?
Ah ah ah, sì, questo è successo. Anzi, sta succedendo anche ora: nel prossimo romanzo che pubblicherò, due personaggi sono ispirati a due allievi che stanno seguendo proprio in questi mesi. Però li ho avvertiti e loro sono contenti… per ora! Dico per ora perché la mia esperienza è che molto raramente una persona è soddisfatta di come un altro la vede, che si tratti di una rappresentazione narrativa o di un ritratto, una fotografia. Comunque, direi in generale che gli sfondamenti di campo reciproci fra realtà e finzione riguardano tutta la mia vita, e forse la scuola meno di altri ambiti. L’amore, per esempio.
Cosa desiderano le persone che vengono ai tuoi corsi? E tu come ti comporti davanti a questi desideri?
Diciamoci la verità: quasi tutti desiderano diventare scrittori professionisti e vincere al più presto il premio Strega, con il Nobel all’orizzonte come successivo traguardo. Il problema è che la selezione è durissima – parlo di una selezione naturale, indipendente dai miei gusti e anche dai miei affetti. Ti dicevo sopra che in ventun anni di scuola, dal ’99 a oggi, sono riuscito a far pubblicare dai vari Mondadori, Einaudi, Feltrinelli, Rizzoli eccetera una sessantina di allievi.
Se uno si mette a fare i conti, potrebbe obiettare: “Ma come, solo tre esordienti all’anno usciti dalla scuola, in media? Sono pochissimi!”. Eppure tre esordienti pubblicati all’anno (che poi in realtà all’inizio erano meno, ora molti di più) sono un numero talmente alto che basta a fare della mia scuola la numero uno in Italia sotto questo profilo, senza citare il fatto che ci lavoriamo solo in due e che la didattica è tutta di mia responsabilità. Tu sai che stimo moltissimo Giulio Mozzi, un grande scrittore e uno straordinario collega in questo campo; siamo diversi in tutto, a partire dal metodo di insegnamento, eppure c’è molta ammirazione reciproca fra noi e anche amicizia.
Bene, riferendosi al suo mestiere di lettore e talent scout, che ha svolto per alcune case editrici importanti, Giulio una volta ha detto (cito a memoria): “Su 1000 manoscritti che mi arrivano, 100 sono leggibili, 10 sono buoni, 1 è da pubblicare senz’altro”. Vedi un po’ qual è la proporzione. Io considero un mio dovere far capire subito a ogni singolo allievo che prospettive ha. Ma questa valutazione va fatta tenendo conto di una cosa importantissima: che il talento non basta, dev’essere affiancato dalla determinazione, ossia dalla capacità di applicarsi, sacrificarsi, soffrire per un obiettivo.
In base alla mia esperienza, molti allievi con un incredibile talento di scrittura – gente che scriveva assai meglio di me, per capirci – non sono riusciti a concretizzare niente per mancanza di determinazione. Al contrario, mi è capitato di essere sorpreso da allievi che non avevo giudicato molto dotati e che invece, lavorando durissimo, sono diventati autori anche affermati.
Sulla questione dell’ingresso nel mondo della narrativa, quindi sulla possibilità di essere pubblicati, ne Il mestiere dello scrittore Haruki Murakami usa la metafora del ring per descrivere il campo dove si gioca questa partita: è facile salire, ma è difficile restarci a lungo. Questo, secondo lui, distingue i veri scrittori dagli altri: restare. Quello che permette ad alcuni scrittori di restare è qualcosa di speciale che nemmeno Murakami sa descrivere. Tu ti trovi d’accordo con questa descrizione? E secondo te questo qualcosa di speciale che cos’è?
Murakami è proprio intelligente, è un piacere leggere le sue riflessioni sulla scrittura. Questo “qualcosa di speciale” è quello che dicevo prima: una combinazione fra talento e determinazione. Un autore di talento ma senza determinazione, per stare al gioco delle metafore sportive proposto da Murakami, è come una macchina di Formula Uno, una Ferrari poniamo, che abbia un motore potentissimo, una carrozzeria disegnata in modo sublime, magari pure un pilota fantastico… ma nel serbatoio non c’è benzina. A quel punto, per arrivare al traguardo è meglio una Panda guidata da un ottantenne ipovedente, che però il carburante per fare quei chilometri ce l’abbia. La determinazione è quel carburante.
Cosa stai scrivendo adesso?
Ho appena finito il prossimo romanzo, che sarà il numero diciassette. Quando ho cominciato mi ero posto come obiettivo di pubblicarne venti prima di morire. Ora naturalmente dovrò aumentare il numero o almeno rallentare la produzione, sempre ammesso di non defungere prima. Peraltro, contando non i romanzi ma i “libri”, e quindi mettendoci dentro tre raccolte di racconti, una di poesie con Aldo Nove e Tiziano Scarpa, una di testi teatrali e il saggio Il Cristo zen, siamo già a quota ventitré e la maledizione del numero venti è saltata. “Appena finito” vuol dire che io ho fatto come sempre la prima stesura (a gennaio, appena prima che venissimo sommersi dall’angoscia) e due o tre revisioni, l’ultima seguendo i consigli di Valeria D’Ambrosio che prima di essere l’editor dei progetti di romanzo che nascono nella scuola è la mia editor, oltre che di altri autori.
Ora comincia la solita trafila: la settimana scorsa l’ho dato alla mia agente, a cui è piaciuto molto. Adesso arriva il momento di presentarlo in casa editrice, dove lo aspettano perché la pubblicazione è fissata più o meno a marzo… ma se a quell’epoca ci saranno le librerie chiuse per la pandemia avrò parecchio da obiettare sulla data di uscita! Speriamo che non sia così, e non certo solo per il libro.
Grazie
Grazie a te!