Gente strana che legge (incluso me).
Quando entri in una libreria è un po’ come se entrassi nella stanza più importate della casa di qualcuno.
Se la libreria è piccola e accogliente senti di entrare in uno spazio personale dove – se ci sono le giuste condizioni – ti puoi sentire comunque a casa tua. Entri e cerchi di avere la predisposizione interiore all’ascolto, all’attesa, senti che le dimensioni del luogo in cui sei ti accolgono e ti sottraggono agli involontari scontri con le altre persone sulle strisce pedonali, al caos degli incroci multipli, alle insegne. È questo che mi piace delle piccole librerie, soprattutto adesso che molti dei miei libri, sono in un posto lontano da qui.
Questo è ciò che si pensa di solito, oppure è una riflessione con cui è bello cominciare un “pezzo”. Ma nella mia mente s’è fatta spazio – col tempo, con l’esperienza e la sopracitata voglia non eccessiva di socializzare in determinati momenti e contesti – anche un’altra considerazione. Che potrebbe essere vero anche il contrario di quanto detto all’inizio e cioè: sì bella, ma se entro in una piccola libreria sono sicura che la gente mi vedrà, mi guarderà o mi chiederà che cosa voglio.
Essere osservati.
In una piccola libreria puoi essere un facile bersaglio. Quindi potresti non sentirti esattamente come a casa.
Hellisbook è solo una tra queste. La vetrina è pienissima di titoli, come se non ci fosse più spazio per sistemarli nei posti soliti e si fosse deciso di metterli tutti su di un semplice tavolo di compensato. Gli scaffali sono di legno, le poltrone, di pelle (il contrario sarebbe stato oltremodo inappropriato). Non c’è molto spazio per camminare tra tutte quelle parole. E in effetti, quando entro, spero solo che troverò in fretta qualcosa che fa per me. Quando entro in una libreria così piccola so già che non troverò i libri che vedo sempre perciò non ho desideri. Magari vedrò una rara biografia di un musicista jazz, oppure di una donna impegnata politicamente negli anni ’50. Però voglio scegliere in fretta.
Quando entro per guardare (non ho idee preconcette, poi comprerò “L’altra figlia” di Annie Ernaux di cui ho scritto qui), la proprietaria sta cercando di dare consigli a un ragazzo su che libro scegliere tra due di Borges.
Osservare.
Il ragazzo è seduto su una delle poltrone e, di tanto in tanto, muove i due libri che ha in mano.
La proprietaria invece è in piedi, di fronte a lui. Parlano de L’Aleph e di un altro libro il cui titolo non sono riuscita a sentire. Al piano di sopra una mini conferenza sull’Islam (mini perché lo spazio – anche su, naturalmente – è piccolo, e possono entrarci poche persone). La voce del professore si sente forte, chiara, accademica.
E quindi, ritornando al discorso di prima, sembra proprio docile e accogliente entrare in questa libreria così piccola, ma ormai mi volto ed è assodato che dopo pochi minuti mi sento già anche in imbarazzo. E questo accade per due motivi del tutto personali. Prima di tutto, perché ci sono entrata tante volte qui, ma per la prima volta entro con l’obiettivo di scriverne e questo mi ricorda uno dei miei vecchi lavori, quando facevo la mystery shopper, che mi sembrava che le commesse sapessero che ero lì per giudicarle; in secondo luogo mi sento così anche perché assisto a un dialogo strano.
La conversazione che si tiene tra i due – libraia e avventore -, pacata, acculturata, mi rende per forza testimone.
E io sorrido, non coinvolta. Sto lì. Non vorrei.
Uno spettacolo di finzione.
Ma non è tanto la proprietaria ad essersi proposta di consigliare, è chiaro che è il ragazzo che chiede e ha questo tono un po’ insistente dei secchioni dell’università che cercano di mettere in difficoltà un professore giovane – tono arrogante, voce alta, sorriso – e mi fa credere – non so perché – che lui questi due libri li abbia già letti e che stia lì solo per ‘interrogare’ qualcuno e vedere se risponde come lui desidera. Mi sembra di capirlo dalle risposte che dà; da come annuisce, sorridendo, consapevole, quando la libraia gli descrive i contenuti di ciascun libro . Ecco, mi sembra di assistere a uno spettacolo di cui mi hanno regalato il biglietto, ma al quale non volevo assistere. Uno spettacolo di finzione del quale anche la proprietaria è ignara (alla fine molla anche lei il palco, garbata: entrambi i libri sono belli, che scelga lui).
A quale scopo il ragazzo si fosse cimentato in un simile teatrino non sono stata in grado di immaginarlo.
La gente fa cose strane di continuo.
Ma mi è venuta la paranoia. A cimentarsi in una cosa strana, probabilmente, sono solo io. Decido che è meglio se me ne vado. Prendo il libro, lo pago, esco. Vado a inventare da qualche altra parte.